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La comunicazione scientifica? Fantastica, ma fuori dall’università.

L'università si lamenta, vorrebbe più esperti in divulgazione ma per loro non prevede un percorso di carriera. Perfino nell' abilitazione nazionale la comunicazione scientifica non esiste. Per l'accademia siamo come le suore in Vaticano: insostituibili, basta però che stiamo al posto nostro.

Uno/una come te ci servirebbe come il pane.
C’è bisogno di insegnare la comunicazione scientifica nei corsi di laurea.
E magari anche ai ricercatori.

Se fate il mio lavoro, queste frasi le avrete già sentite. Non c’è simposio, incontro o tazzina di caffè fra comunicatori scientifici e ricercatori dove questi ultimi non si lamentino sulla carenza di esperti in grado in insegnare e sperimentare la buona  comunicazione nelle facoltà scientifiche. In un posto normale si parlerebbe di un incontro perfetto fra domanda e offerta: eccolo il comunicatore, è davanti a te, è il tuo giorno fortunato. Parliamone.

Ma l’università italiana non funziona così, e i suoi esponenti fanno finta di non vedere il classico elefante nella stanza. Se c’è  così bisogno, perché il mondo della ricerca non offre un percorso decente di carriera per i comunicatori scientifici? Sarebbe così difficile? Se non lo fanno gli atenei che dicono di averne necessità, chi altri può farlo?

Il problema è serio:  a quanto ne so (spero di sbagliarmi ma non credo) in  Italia non c’è una sola vera cattedra di comunicazione scientifica (per vera intendo con sopra un  esperto del settore invece che un microbiologo/fisico/filosofo della scienza o altri eminenti studiosi di campi che non c’entrano nulla).  La realtà è che a parole tutti li vogliono, questi comunicatori, ma nessuno sa dire loro come fare a mettere piede negli atenei. Per chi voglia intraprendere una carriera accademica nel campo della comunicazione scientifica, infatti, la strada finisce presto in un vicolo cieco.

Prendete ad esempio la famigerata Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) . Per chi non la conosce, si tratta di un “concorsone” preventivo:  non garantisce alcun posto, ma chiunque aspiri un giorno a diventare professore universitario di prima o seconda fascia deve per forza concorrere per avere questa famigerata abilitazione. Non voglio entrare nel merito del meccanismo, che molti considerano una cavolata. Quello che mi ha colpito è un’altra cosa:  fra i 184  settori concorsuali dell’ASN, che rappresentano praticamente tutte le discipline universitarie, non ce n’è neanche uno assimilabile alla comunicazione scientifica. La competenza di cui le università dicono di avere così bisogno, nel concorsone non è prevista. E senza abilitazione, niente carriera universitaria per i comunicatori.

Ho chiesto conferma ad una persona che stimo, un professore che conosce bene i meccanismi universitari e che gentilmente ha accettato di analizzare il mio CV, che è quello un comunicatore e docente freelance con una discreta esperienza. Dopo varie ricerche mi ha detto che forse c’è un settore dove potrei tentare, ed è nel campo della sociologia. Proprio così, dovrei concorrere insieme ai sociologi e affini, ma – aggiunge il mio insider- in quel contesto non avrei nessuna speranza di far valere il mio CV. La mia esperienza come comunicatore potrebbe essere stellare, posso anche aver collaborato con le migliori riviste del settore e insegnato nei migliori centri del mondo, ma siccome  la mia specialità non esiste, neanche i miei titoli valgono un tubo. E  siccome le mie pubblicazioni in campo  sociologico sono pari a zero, non mi vogliono più. (disclaimer: conosco bravi sociologi che si occupano anche di scienza . Ma è una cosa molto diversa da quello che l’università lamenta: la mancanza di gente  che pratichi e insegni la comunicazione scientifica. Mi sembra chiaro).

L’unico consiglio del mio insider è quello di pubblicare più saggi tecnici su riviste sociologiche. Avete capito bene:  il mondo della ricerca dice di avere  bisogno urgente di divulgatori, ma prima vuole che diventino sociologi. E che passino anni a fare la gavetta pubblicando come tali, sperando un giorno di vedere riconosciuto il loro vero talento di comunicatori. Kafka in confronto è un dilettante.

Forse per consolarmi, l’insider dice che la mia figura sarebbe tuttavia interessante per una docenza a contratto. Non ho nulla in contrario. Se organizzata bene si potrebbero  fare cose interessanti anche con quella. Ma quante sono le docenze a contratto affidate a comunicatori con esperienza sul campo? Io non ne conosco (non parlo di master e affini ma di corsi di laurea). E resta il fatto che questi docenti rimarrebbero sempre con un piede fuori dalla porta, non esistendo cattedre e neanche un settore di carriera a loro dedicato. Come le suore in Vaticano, nell’università italiana i comunicatori sono a quanto pare essenziali, ma non potranno mai andare lontano.

Colpa dell’ ASN, del ministero, dell’ANVUR, si dirà, non delle università. Col cavolo. Le cose stanno così da sempre, anche prima che ASN e ANVUR nascessero. Gli  atenei italiani non hanno mai previsto uno spazio per i docenti-comunicatori, come succede all’estero, perché il settore  è una delle tante faccende NIMBY della nostra accademia: benevengano i comunicatori, basta che  finito il loro speech   tornino a casa e non pisticchino l’orticello di chi già è dentro. I posti scarseggiano, c’è la coda per gli scienziati veri, figuriamoci se si possono dividere le cattedre con qualche guitto che viene a insegnare  come si racconta la ricerca, come si coinvolge il pubblico, come si evita di farsi prendere in giro dalla stampa. Si fa prima a lamentarsi, e magari a chiedere che vengano ogni tanto a dire due cose, meglio se gratis.

Cari amici cattedratici, i problemi delle facoltà li conosco bene, ci ho vissuto e avete la mia solidarietà.  Non mi sto neanche lamentando per me, dato che anche così sto bene e per ora me la cavo bene.  Ma siete voi che vi lagnate e poi non risolvete, o sbaglio.  Non  dico  che dovrebbe funzionare come negli altri paesi, dove se un dipartimento ha bisogno di una competenza se la cerca e la recluta direttamente, come succede per i miei colleghi americani o inglesi. Ma almeno,  possiamo evitare i discorsi inconcludenti sulla carenza dei divulgatori e passare invece a ragionamenti più pratici? Tipo:

  • Avete davvero bisogno di bravi professionisti in grado di insegnare? Ottimo. Ce ne sono già molti in giro.
  • C’è qualcosa che voi e i vostri atenei volete, potete fare per reclutarli?
  • Ci state a  creare un percorso di carriera serio, magari rinunciando ad una briciola del vostro terreno accademico?
  • Volete, potete trovare delle risorse adeguate?
  • Perché non create corsi/cattedre ad hoc, magari con fondi privati, anche a termine, e li affidate a gente in gamba (se ve le spartite fra voi, non funziona)?

Se avete delle risposte concrete, allora siamo sulla buona strada, parliamone.

Se invece la solfa è sempre la stessa, se la coperta è troppo corta eccetera io vi capisco e sono dalla vostra parte ma fatevi un favore: smettetela di lagnarvi con noi che siamo fuori e mettete ordine nelle vostre facoltà. Parlate con i vostri rettori e magari col ministro.

Lo so, è meno figo che organizzare qualche bel simposio per piangere in compagnia, ma fidatevi, sarebbe più utile.

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