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AAA. Qualcuno mi cercava?

Dove sono i giornalisti scientifici? Eccone uno, per esempio.

Cara Antonella Viola,

eccomi qua. Forse non mi conosci, ma rispondo al tuo annuncio da poco apparso sul Giornale dell’Università di Padova (AAA giornalismo scientifico cercasi) dove lamenti lo stato esecrabile della comunicazione, chiedendoti: “dove sono i giornalisti scientifici”?

Beh, eccone uno. Per esempio.

Mi permetto di darti del tu perché siamo colleghi, o almeno lo siamo stati finché ho lavorato come ricercatore, prima di dedicarmi alla comunicazione scientifica, pur mantenendo felicemente sempre almeno un piede nei laboratori.

Fino al 2010 ho contribuito come consulente alla comunicazione scientifica e al monitoraggio della ricerca Telethon, una delle organizzazioni  che ha premiato i tuoi meritevoli progetti scientifici. Un giorno di qualche anno fa ero proprio al V.I.M.M., l’ottimo istituto di ricerca dove  lavori, a tenere un workshop di comunicazione per i giovani ricercatori.

Questo per dirti che, anche se facciamo mestieri diversi, non ti scrivo dalla Luna ma da un mondo tutto sommato vicino al tuo, alla tua formazione e sensibilità.

Quello che ti racconterò  forse non ti piacerà e non ti troverà d’accordo ma è l’analisi tecnica di un giornalista e comunicatore che è anche ricercatore, da sempre innamorato della scienza e dei suoi complessi risvolti. Una voce indipendente e, credo, sufficientemente temprata nell’agone comunicativo.

Il tuo titolo-annuncio amaramente ironico cela  in realtà (per chi non l’ha letto) un   commento accurato e sinceramente preoccupato sulla disinformazione scientifica e il  “bombardamento“ di articoli e trasmissioni deliranti dove la scienza è maltrattata e comunicata in modo demenziale.

Se fosse solo questo, il tuo sfogo sarebbe un’ incontrovertibile (e condivisibile) cronaca dei fatti. Che tuttavia, lo dico senza ironia, si aggiungerebbe al chilometrico cahier de doléances di accademici che in vent’anni, da quando faccio questo lavoro, mi è capitato di sentire. Perché – e questa è una prima notizia che devi sapere- il bombardamento di cavolate scientifiche non è recente come scrivi e non nasce neanche con Facebook, anzi.

Nei miei ventennali archivi c’è ormai un piccolo esercito di arrabbiatissimi scienziati che, quando i social erano ancora fantascienza, già deplorava la dilagante disinformazione scientifica nei media usando parole che potrebbero essere la fotocopia delle tue, per poi tornare ordinatamente, come è giusto che sia, al proprio lavoro. Una  sequela di sfoghi accademici  che però hanno sempre lasciato le cose  com’erano, anzi forse un po’ peggio. Perché lo sfogo è legittimo, ma (lo dico sempre con grande rispetto) commentare pubblicamente un argomento che non si conosce, che si tratti di scienza, vaccini, calcio o comunicazione, è sempre sbagliato e talvolta dannoso.

Nel tuo articolo ritrovo purtroppo alcuni luoghi comuni che gli scienziati, anche quelli bravi e in buona fede come te, trovano irresistibili ma che risultano infondati e, peggio mi sento, sfociano in uno schema ripetitivo ben noto a chi fa questo mestiere.

Il primo clichè  consiste nell’osservare i disastri dei media e concludere che non esistono bravi professionisti nel giornalismo scientifico. Alla domanda retorica (“Dove sono i giornalisti scientifici?” – la risposta implicita è ovviamente: non ci sono!)  segue una soluzione apparentemente logica  “C’è un disperato bisogno- scrivi-  di giornalisti scientifici seri e competenti, adeguatamente formati a livello universitario e post-universitario, ed esorto i mezzi di comunicazione a essere responsabili e non affidare dei temi così difficili e così delicati a persone impreparate”.

Insomma,  prima ancora di verificare se davvero ci sia carenza di talenti, si fa già strada la ricetta: formiamo schiere di giornalisti scientifici, naturalmente all’interno dell’Università,  e popoliamo con essi il pianeta dell’Informazione!

Cosa c’è che non va, mi dirai?

Per cominciare, c’è che il ragionamento si basa su una premessa sbagliata. Non è vero che non ci siano bravi giornalisti scientifici, anzi.

Chi conosce il mondo della comunicazione scientifica sa bene che in giro ci sono molti professionisti che hanno proprio le caratteristiche di cui parli. Gente preparata, in grado di valutare le fonti e raccontare la notizia scientifica in modo accurato. Gente che conosce e usa Pubmed come dici tu (per inciso, Pubmed è solo uno strumento fra tanti, non la bacchetta magica del buon giornalista scientifico come molti ricercatori pensano). Di questi professionisti ne conosco un bel pò, diciamo abbastanza da soddisfare il fabbisogno italiano dell’informazione scientifica per qualche anno. Molti escono da master di ottimo livello, altri, come me, si sono formati con l’esperienza. Se li cerchi, li trovi. Se non li trovi, sarà mio piacere fartene conoscere qualcuno.

Dove sono? Con le dovute e notevoli eccezioni, sono quasi tutti freelance, tenuti a debita distanza dalle redazioni che contano. Professionisti seri che, piuttosto che guadagnare 30 o 50 euro per un articolo  (perché questi sono i compensi medi) fanno comunicazione in altri modi, altrettanto utili e sicuramente più sostenibili. Gente che, lontano dei riflettori, e fra un incarico pagato e l’altro riesce perfino  a mettere a disposizione, in rete e spesso pro bono, informazioni preziose che contribuiscono a ribaltare in meglio la percezione pubblica, come nel caso di Stamina. Spesso rimediando all’approccio benintenzionato ma comunicativamente devastante di alcuni scienziati.

Insomma, cara Antonella, capisco la tua frustrazione ma guardati intorno. C’è bisogno di formare nuove schiere di comunicatori scientifici quando neanche  si usano quelli che già esistono? E, soprattutto quali atenei hanno le competenze necessarie per farlo? Anche le mie, se non si fosse capito, sono domande retoriche.

Forse non lo sai, ma a parte due o tre rispettabilissimi corsi  che tutti nell’ambiente conoscono, la penisola pullula di  master di comunicazione scientifica fallimentari, tenuti da scienziati con zero titoli in campo comunicativo. Corsi che aprono come funghi sulla base della presunta mancanza di talenti (ma più spesso per gonfiare l’offerta formativa)  e altrettanto rapidamente, quando va bene, chiudono per mancanza di iscritti (perchè alla fine neanche gli studenti sono così fessi da pagare per un master di cartone). Potrei  raccontarti una miriade di case-studies divertenti o agghiaccianti, dipende dai punti di vista.

E qui arrivo al terzo luogo comune che ritrovo, almeno in parte nelle tue parole: l’idea ingenua  e paternalista secondo cui tutto il problema sta nel  passaggio di informazioni dall’esperto al laico, o al giornalista.

Troppo spesso– scrivi-  le nostre parole vengono fraintese o addirittura stravolte, e in questo senso dobbiamo tutti fare uno sforzo per evitare che accada, evitando toni sensazionalistici e pretendendo sempre di leggere gli articoli prima che vengano pubblicati. Ma chiudersi sarebbe un errore: mai come ora è necessario trovare il giusto modo di comunicare la scienza e spiegare il nostro metodo di lavoro, basato su trasparenza, verifica e consenso della comunità scientifica.”

Quello che scrivi  è in parte  condivisibile, ci mancherebbe, ma  rispecchia l’immagine errata che molti scienziati hanno riguardo alla comunicazione. Non voglio tediarti con dettagli tecnici, anche se alcune idee  -leggiamo gli articoli prima che vengano pubblicati!- sono irrispettose dei ruoli e comunque impraticabili nel mondo reale, come può spiegarti  qualunque bravo comunicatore. Il punto essenziale  è che la comunicazione pubblica non è un mondo a compartimenti stagni dove A parla a B (magari a senso unico) ma un ecosistema complesso dove l’informazione circola e prende forma.

Non si risolve tutto con lo scienziato che trova   le parole e le immagini giuste per trasmettere il messaggio  ad un interlocutore preparato (anche se la scelta dei messaggi, delle parole delle immagini  e degli interlocutori è importante), ma esiste una catena alimentare complessa e interdipendente dove le grandi testate, quelle che scrivono quasi sempre le cavolate più seguite, sono spesso  i grandi predatori in cima alla piramide.

L’ambiente accademico fatica a concepire che  nell’ecosistema dell’informazione non ci sono soltanto scienziati, giornalisti e un generico pubblico da educare. C’è tutto un mondo che, ad esempio, include  una serie di figure  esperte (ufficio stampa, consulente, coach, stratega) che conoscono i meccanismi e possono  fare da cerniera fra scienziati e media. In molti settori questi professionisti sono lo standard. Nella ricerca sono tenuti fuori, vuoi perché i centri accademici non le prevedono o le reclutano male, vuoi perché molti scienziati  ritengono (a torto) di non averne bisogno.

Il sistema pubblico di ricerca,  che pure sbandiera la necessità di formare e utilizzare buoni comunicatori, non contempla il profilo del comunicatore nell’Abilitazione Scientifica Nazionale e sappiamo bene quanto sia poco  disposta a utilizzare, e pagare, competenze esterne che già esistono. Insomma, comunicatori bravi sì, ma not in my backyard. I veri professionisti, quelli che potrebbero fare la differenza suggerendo e implementando una strategia efficace, di solito sono tenuti debitamente alla larga dai laboratori. Al massimo vengono richiesti come moderatori o relatori una tantum per un evento, meglio se  gratuito.

Cara Antonella, non voglio metterti in mezzo più di tanto, e non prenderla come una critica personale. Sei una giovane, bravissima  e affermata ricercatrice ma  è giusto che, dopo esserti pubblicamente espressa  su un tema che non ti è così familiare, tu sappia come funzionano davvero le cose.

Devi sapere che il sistema di ricerca italiano, quello che sta alla base dell’ecosistema, quello  in cui anche tu lavori e che genera le storie scientifiche di cui poi gli altri parlano, con una mano sbandiera la necessità di una comunicazione responsabile ed efficace e con l’altra svilisce il lavoro dei bravi professionisti. Li tiene fuori dalla porta, ignorandone l’esistenza e preferendo “formare” professionalità fra le mura di casa dove queste competenze però non ci sono neanche fra i docenti. E’ la generazione spontanea delle competenze. Lo sforna-giornalisti automatico per abiogenesi. Un delirio  che si avvita su se stesso come le scale di Escher.

Se ti serve  un esempio fra tanti, puoi fare qualche chilometro da Padova e andare a Trento, dove la Provincia Autonoma ha finanziato  un bando da 1,2 milioni di euro per 4 grant destinati a progetti di “comunicazione della scienza”. 300 mila euro a progetto. Un bel gruzzolo. Riservato però a post-doc a cui non è richiesta, per bando, nessuna competenza comunicativa. Non sto dicendo che siano soldi buttati via o che i progetti non saranno validi (questo si vedrà), ma è davvero il sistema giusto?  Accetteresti che  un grant di ricerca venisse affidato a uno che fa, per dire, l’assicuratore o l’idraulico, senza alcuna competenza scientifica? Quando succede,  il mondo accademico grida giustamente allo scandalo. Chissà perchè,  invece, quando si parla di comunicazione  tutto fa brodo. In fondo, dai, che ci vuole a comunicare? Qualche mese di formazione e oplà, ecco un nuovo professionista bello e  pronto. La generazione spontanea delle competenze nel suo massimo splendore.

Molte Università, e perfino il Ministero della Salute che dovrebbe dare l’esempio, affogano nella deriva di una comunicazione dilettantesca e autoreferenziale senza la minima traccia di strategia. La famigerata terza missione universitaria, a cui spesso ci si dedica senza aver completato con successo la prima e la seconda, è –  con le dovute eccezioni – quasi sempre appannaggio di accademici e dei loro collaboratori gratuiti o malpagati, con risultati conseguenti. Progetti europei milionari di divulgazione sono selezionati da comitati di accademici e affidati a ricercatori senza alcuna competenza comunicativa.

Scienziati che si credono comunicatori, quando sono in realtà creatori di contenuti, continuano ad andare in giro come schegge impazzite senza alcun piano organico, confondendo la divulgazione con la persuasione, lasciando poi ai veri comunicatori il compito ingrato di raccattare i cocci di una percezione pubblica a pezzi.

Sia chiaro: il senso di sfiducia che provi verso molti reporter è comprensibile e pure giustificato. L’assenza di un interlocutore preparato e affidabile è un fattore di cui bisogna tenere conto quando si decide se concedere o meno un’intervista. Peccato che –nella mia esperienza- più grande e visibile  la testata, più è raro che uno scienziato declini un’intervista o un’apparizione TV, pur sapendo  benissimo che dall’altra parte del microfono magari si trova un cialtrone.

Cara Antonella, scrivi che voi scienziati siete stufi, e hai ragione. Ma se ascolti i miei colleghi bravi, e dai un’occhiata a qualche forum specialistico vedrai che anche da queste parti siamo stufi di sentire, da anni, generazioni di scienziati che si lamentano, magari improvvisandosi esperti di comunicazione, senza guardare cosa succede nelle loro stanze.

Capiamoci: se lo sport è quello di dire quanto la comunicazione mediatica faccia schifo, mi iscrivo anche io e potrei  vincere il campionato. Per quello che mi riguarda, non scrivo un articolo in italiano da un paio d’anni. Dico solo che  il tempo che molti amici ricercatori passano a  lamentarsi potrebbe essere meglio impiegato, ad esempio, per dirottare qualche euro per una giornata di formazione seria  che non sia la solita e piagnosa tavola rotonda sulla comunicazione. Per riflettere sulle figure che esistono nell’ecosistema e i rispettivi ruoli. Per  procurarsi una consulenza seria sulle strategie, un’occasione di coaching, o per finanziare  un progetto di comunicazione serio.

Dici giustamente che gli scienziati devono aprirsi alla comunicazione: hai ragione. Questo significa tirarsi su le maniche e ammettere di non avere le competenze. Accettare un  contributo esterno, trovando le risorse per includere professionisti capaci nel processo. Siamo stufi di sentire lamentele da parte dei ricercatori e poi, quando offriamo collaborazione professionale,  sentirci rispondere le solite menate sulla burocrazia e sulla mancanza di soldi e tempo.

Cara Antonella, se il titolo  del tuo post (AAA giornalismo  scientifico cercasi) diventasse una vera offerta di  lavoro da parte di chi fa scienza, ti assicuro che le cose migliorerebbero assai E’ giusto che tu sappia che esistono tanti bravi professionisti, che sono a disposizione, se solo il sistema di ricerca in cui lavori decidesse di usarli. Te ne posso presentare parecchi, se un giorno come spero ci troveremo davanti ad un buon caffè.

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